La terra dentro il capitale

Intervista di Liviana Andreossi a Maura Benegiamo

da Germinal n. 130

Libro: Benegiamo Maura, La terra dentro il capitale. Conflitti, crisi ecologica e sviluppo nel delta del Senegal, Orthotes, Napoli-Salerno, 2021, 158 pp., 16 euro.

Il Land grabbing riguarda l’Africa ma non solo: attraverso quali meccanismi il furto dei territori è diventato una pratica non perseguibile penalmente?

Va detto che ogni processo di acquisizione è un caso a sé, quindi i meccanismi utilizzati sono diversi e dipendono dal contesto legale in cui è inserita la terra, dai suoi usi precedenti, etc. Inoltre la mancanza di trasparenza e la difficoltà nel reperire informazioni pubbliche è stata una caratteristica comune alle nuove transazioni fondiarie, contribuendo a rendere il processo molto opaco. Su un piano generale, possiamo dire che il land grabbing, letteralmente “l’accaparramento di terra”, non è un fenomeno nuovo: i processi di concentrazione fondiaria hanno alle spalle una lunga storia, inserita nelle specifiche economie (feudale, coloniale, tardo-capitalista etc.) e nei particolari rapporti di potere che le contraddistinguono. Oggi come allora esistono garanzie legali a tutela di questi rapporti. La principale è il mercato, per cui alcuni imprenditori hanno stipulato accordi di cessione o di contract-farming con i contadini impoveriti, garantendo loro di aumentare il livello di produzione e rendendo quindi più conveniente lavorare la terra in subappalto. Tuttavia, date le dimensioni degli attuali investimenti (parliamo di progetti da migliaia di ettari alla volta), è spesso lo stato ad aver giocato un ruolo centrale, assegnando interi pezzi di territorio a imprese private. Il meccanismo più usato è stato quello dell’affitto a lungo termine o enfiteusi: una forma di semi-proprietà che conferisce un diritto d’uso di lunga durata, spesso sino a 99 anni. Durante questo tempo il locatario è tenuto al pagamento di un canone e deve assicurare la ‎valorizzazione dell’appezzamento, ma in molti casi, come in quello descritto nel libro, alle imprese non è stato chiesto di pagare nulla, secondo l’idea che gli imprenditori portavano ricchezza diffusa e quindi andavano agevolati il più possibile. Le concessioni sono state anche facilitate dal fatto che in molti contesti, come quello africano, i sistemi locali mancano di garanzie effettive. In particolare quando si tratta di terre di pascolo, foreste o praterie i cui usi sono spesso comuni e comunitari. Sono queste le zone più colpite dalla recente corsa alla terra.

La copertura legale non garantisce però la correttezza del processo di acquisizione, spesso è necessario procedere alla consultazione delle comunità interessate e effettuare studi di impatto socio-ambientale. Nonostante accompagnati da belle parole come inclusione e partecipazione, questi meccanismi sono spesso insufficienti a sormontare le asimmetrie di potere che li attraversano. Sono particolarmente problematici per le comunità che sono colpite da questi progetti di investimento, ma non vengono identificate come legittime interlocutrici o non hanno sufficiente influenza, sia a livello locale che all’interno della politica governativa, per articolare e difendere le loro preoccupazioni.

Esiste un legame fra la produzione di energia e il land grabbing in Senegal?

Sì, si chiama green-economy! A parte gli scherzi, che poi non è una battuta, più della metà delle transazioni di terra avvenute nei primi anni 2000, in Africa e su scala globale, aveva come finalità dichiarata quella di creare piantagioni agricole destinate ad un uso energetico sotto forma di agro-carburanti. Si è trattato per lo più di piantagioni a sementi oleaginose, come la jatropha, il girasole o la colza, dalla cui spremitura si può ricavare un olio combustibile. Ma anche altre specie vegetali, come per esempio patata dolce, manioca o mais per la produzione di bioetanolo. Alcune di queste piante sono chiamate flex-crops: piante flessibili, ovvero passibili di essere destinate ad un uso energetico, alimentare o zootecnico a seconda delle esigenze e delle convenienze del mercato. Si tratta però di narrazioni semplicistiche, che alla prova dei fatti rivelano tutte le loro complessità e problematiche, oltre agli impatti sociali e ambientali. La promessa speculativa è un meccanismo chiave del capitalismo neoliberale, che attorno a prospettive entusiaste di successo mobilita investimenti e sostiene l’apertura di nuovi mercati. La speculazione alla base del boom degli agro-carburanti ha che fare con l’idea che il settore dell’economia verde sarebbe stato un volano per rispondere alla crisi climatica, senza necessità di cambiare i modelli di consumo e le logiche di produzione, ma proprio grazie al mercato: aumentando i profitti e quindi attirando investitori. Questa idea ha influenzato i nuovi modelli di sviluppo, in particolare destinati all’Africa sub-sahariana ed ha influenzato anche la politica senegalese, segnata da una grave crisi energetica e colpita duramente dalle speculazioni sui prezzi delle materie prime alimentari del periodo 2007-2008. È a seguito di ciò che sono aumentati gli investimenti: si sperava che crescita economica, sicurezza energetica e mitigazione climatica potessero andare di pari passo, agevolando anche il miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti locali. Ancora una volta va rilevato il sostrato ideologico di questi approcci e il loro far leva su rapporti sociali ineguali di lungo periodo.

Perché il Senegal era diventato la terra promessa per il colonialismo italiano da parte delle aziende?

Ci sono vari motivi, tra cui anche la vicinanza geografica con l’Italia, la stabilità politica del Senegal e il fatto che alcuni imprenditori avessero operai senegalesi in Italia i quali potevano guidarli nel processo di mediazione con le comunità in Senegal. Un ruolo importante lo hanno avuto alcune agenzie di consulenza che, a volte in collaborazione con alcune Università, hanno presentato scenari convincenti di investimento in paesi poveri, con una presunta disponibilità di terra, dipingendo la jatropha come una pianta con poca necessità d’acqua e ad alto rendimento. Perfetta per coniugare profitto e sviluppo locale. In tutto ciò lo stato italiano ha messo in atto tutta una serie di azioni diplomatiche, che nel libro sono illustrate, per agevolare la collaborazione tra i due governi. Ma gli imprenditori italiani non sono andati solo in Senegal. L’Italia è stata tra i primi acquirenti di terra in tutta l’Africa, in paesi come Mozambico, Guinea e Madagascar. 1

Non parlerei però di colonialismo, il colonialismo aveva a che fare con un’espansione geopolitica delle potenze imperiali. Parlerei di logica coloniale, che oggi pervade i processi di globalizzazione e i nuovi estrattivismi e della persistenza di categorie, convenzioni e approcci che si sono formati nel periodo coloniale. Si tratta di pratiche che troviamo anche qui in Italia, pensiamo al colonialismo interno e a ciò che ha comportato la retorica della modernizzazione e del progresso per territori come per esempio la zona di Monfalcone, con la relativa svalutazione delle vite degli abitanti e dei lavoratori, costretti ad un impossibile ricatto tra salute e lavoro.

L’Europa aveva contribuito a incentivare la pratica del land grabbing? 

Sì, l’Europa ha avuto una grande responsabilità: gli obblighi di miscelazione e gli incentivi legati agli obiettivi di mitigazione hanno prodotto un massivo cambio di uso del suolo ed esasperato la competizione tra cibo e energia. Non solo nei paesi membri, ma anche in molte aree del mondo da cui l’Europa importava la maggior parte della materia prima. Il problema ovviamente non è la necessità di ridurre le emissioni e limitare l’uso dei combustibili fossili: una transizione è necessaria, ma non può essere solo tecnica. Con soluzioni spesso miopi perché, per esempio, l’energia necessaria per trasformare un campo di colza in benzina è molta di più dell’energia che quella colza potrà produrre. È un sistema che funziona solo grazie agli incentivi statali: non solo non si crea mitigazione ambientale, ma si crea ricchezza privata a carico dei contribuenti!

Perché è fallito il progetto dei biocarburanti e che ricadute ci sono state sulle comunità rurali depredate dai territori di sostentamento?

Il progetto dei biocarburanti è fallito principalmente perché non sono riusciti a produrli. La jatropha in particolare si è rivelata molto meno redditizia di quanto auspicato; così gli imprenditori hanno preferito abbandonare le coltivazioni, spesso lasciando dietro di loro incertezza legale sullo stato delle concessioni, conflitti per il recupero della terra e comunità divise. A ciò si aggiungono strutture non smaltite: capannoni, macchinari, filo spinato. Nel caso che ho esaminato più da vicino gli enormi canali a cielo aperto che si estendono per chilometri obbligano tutt’oggi le popolazioni ad attraversarli e negli ultimi anni tre bambini vi sono annegati nel tentativo di far pascolare i loro animali.

Il fallimento degli investimenti ci mostra come le narrative del progresso e le logiche coloniali rappresentino una mistificazione della realtà, ma ci permette anche di mettere in dubbio il mito dell’imprenditore illuminato a cui bisogna aprire tutte le porte, spesso a discapito delle popolazioni locali. Questa “credenza” genera impatti meno visibili ma ben più profondi e di lungo periodo. La retorica dell’investimento privato oscura come i veri attori dello sviluppo siano le popolazioni locali, che da anni sostengono e si attivano per i loro territori pur non avendo gli incentivi e le agevolazioni che invece vengono date ai “grandi” imprenditori. Non è superfluo ricordare che dagli anni ‘80 il sostegno pubblico ad agricoltori e agricoltrici africane è stato “sanzionato” come forma irregolare di concorrenza globale e eliminato dalle politiche di sviluppo, mentre la PAC non smetteva di sovvenzionare gli agricoltori europei.

La necessità di attirare gli investitori sta anche giustificando l’avvio di una serie di politiche e riforme che mirano a modificare il sistema dei diritti alla terra per permettere una transizione del continente all’agroindustria. In Africa però, e in generale in più della metà del mondo, non è l’agroindustria a sfamare le persone, ma l’agricoltura contadina di piccola scala che rifornisce i mercati locali.

Il suo libro parla di resistenza delle popolazioni locali e di nuovi modelli di sviluppo, possiamo imparare qualcosa da queste pratiche?

Nel libro cerco soprattutto di rintracciare i tempi lunghi di queste resistenze, come dinamiche consustanziali a uno sviluppo capitalista che si dà in primo luogo quale alterazione dei territori, delle forme e dei ritmi della riproduzione socio-ecologica in nome del progresso, della modernità e del profitto. La storia delle comunità pastorali di cui il libro parla, mette a nudo le contraddizioni di questo processo, i suoi fallimenti e le logiche di potere. Mostra il ripetersi delle medesime narrazioni, il persistere delle forme coloniali di costruzione del sapere. Il conflitto in corso fa anche vedere come l’estremizzazione di tale processo incontri oggi dei limiti ben precisi, che ne esasperano gli impatti. Queste comunità si ritrovano schiacciate dentro una duplice minaccia. Non vogliono cedere le loro terre, divenire operai agricoli salariati, perdere la loro libertà, la loro storia e la loro autonomia. Ma non possono nemmeno più continuare a fare quello che hanno sempre fatto. La progressiva occupazione agricola della regione fa sì che la pastorizia viva una crisi di cui l’investimento rappresenta solo il momento culminante. Una forma di transizione si rivela necessaria. Tuttavia l’unica che viene proposta, dallo Stato e dagli attori dello sviluppo, è quella di un impossibile passaggio al modello dell’allevamento industriale. Ho trovato interessante come l’alternativa passi per il tentativo di tenere insieme e riconnettere dei nodi spesso contrapposti: salute e lavoro, reddito e preservazione del territorio, autonomia e partecipazione, benessere sociale e continuità della vita sulla terra, dignità della vita non umana e forme di co-esistenza uomo-animale. Tutti elementi che hanno nutrito anche i movimenti globali come quello per la giustizia ambientale e climatica che domandano una “transizione giusta” (just transition ndr), ovvero che non lasci indietro nessuno, compresi i lavoratori e le lavoratici impiegate nei settori che per forza di cose dovranno chiudere e riconvertirsi.

1 C’è un report di RE:Common che lo illustra molto bene: https:// www.recommon.org/gli- arraffa-terre/

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