Molti conoscono Mario Candotti a Ronchi e nel monfalconese per il suo impegno nell’ANPI e nell’ANED, oltre che per le drammatiche vicende che hanno coinvolto lui e la sua famiglia durante il secondo conflitto mondiale (i genitori morti in campo di sterminio in Germania dove pure Mario e due sorelle vennero internati e due fratelli partigiani morti durante la lotta di liberazione).
Poco nota – se non del tutto ignorata – è invece l’esperienza libertaria che Mario insieme ad alcuni altri visse negli anni ’50 e fino ai primi anni ’70 nel monfalconese e in cantiere.
Mario Candotto (all’anagrafe, ma lui si presenta come Mario Candotti con la I finale) nasce a Porpetto nella bassa friulana assieme ad altri sei tra fratelli e sorelle. Quando è ancora un bambino la famiglia si trasferisce nel monfalconese perché il padre perde il lavoro da sacrestano e subisce l’isolamento da parte della comunità nel momento in cui uno dei fratelli di Mario rifiuta di proseguire gli studi al seminario.
A Monfalcone i fratelli prima e Mario poi entrano in cantiere, dove il confronto con la massa di operai inizia a dar loro una coscienza di classe e li allontana dai pregiudizi religiosi vissuti in famiglia.
Con lo scoppio del secondo conflitto mondiale il fratello Massimo viene costretto ad arruolarsi nella milizia fascista conoscendo l’orrore, la violenza e l’ingiustizia della guerra, che racconta in famiglia ogni volta che è in licenza.
Questo assieme alla vita dura fa maturare in Mario un profondo odio verso il fascismo, al cui crollo i due fratelli maggiori Renzo e Massimo vanno partigiani.
Combattono già durante la battaglia di Gorizia nella “Brigata proletaria” formata da operai del cantiere di Monfalcone (molti dei quali – come i miliziani spagnoli – vestono il “terlis”: l’abito da lavoro dei cantierini). La brigata viene annientata dai nazisti e tra i molti caduti c’è Massimo Candotto.
Renzo invece sarà tra coloro che hanno costituito la brigata Triestina e morirà anche lui in montagna.
Mario invece non ha partecipato alla Resistenza direttamente perché la madre glielo ha impedito vista la giovane età, ma mentre lavora alla Todt fa parte di una cellula comunista attiva a Ronchi.
La sua esperienza più drammatica comincia il 24 maggio 1944 quando a causa di una delazione viene deportato assieme a tutta la sua famiglia, esclusa una sorella che viveva già fuori di casa. Dopo una ventina di giorni agli arresti ed una sommaria identificazione viene mandato in Germania: destinazione Dachau.
L’esperienza tragica dell’internamento segnerà profondamente il giovane Mario, che qui perde entrambi i genitori; la situazione ineffabile e disumana tra l’altro lo farà allontanare ancora di più dalla religione.
“L’esperienza che gò vù in Germania un che no gà provà nol pol capir. Perché te rivi al punto della sopravvivenza che te rivi a negar anche il tuo simile, il tuo consanguineo. Mi gò visto fradei che se negava il pan un con l’altro.
Lì gò fatto un’esperienza che gò capì che l’omo xe tant egoista e individualista.
Dopo quel che gò provà. Dove iera Dio? Se iera un dio doveva incenerirli quei aguzzini che ne tormentava. Doveva incenerirli prima de rivar alla mente. Allora no posso creder: no esisti un dio. Mi son rivà al punto de dir che un che disi de creder a qualcosa oltre al suo essere, soprannaturale, quel xe un vile secondo mi. Mi devo lottar con le mie forze. Allora mi digo l’umanità xe proprio vile.”
Rientrato a Ronchi alla fine della guerra, Mario, viste anche le difficoltà a trovare lavoro, sceglie di trasferirsi in Jugoslavia insieme a migliaia di altri monfalconesi, seguendo quello che poi si è dimostrato il vacuo sogno di “edificare il socialismo”.
Rientrato alla fine del ’47 dopo un anno trascorso a Belgrado, dove già nota la corruzione e il malfunzionamento della produzione industriale, decide di non tornare in Jugoslavia e di non prendere più la tessera del partito comunista.
La delusione per la scelta socialista e internazionalista tradita dalla burocrazia e dall’autoritarismo russo e jugoslavo è cocente per Mario che però, avendo fatto domanda in cantiere come ex deportato, perlomeno riesce a trovare lavoro a differenza di molti suoi compagni.
Ed è proprio in cantiere che Mario sente parlare di anarchismo, iniziando a leggere e ricevere Umanità Nova e L’adunata dei refrattari.
Tra i simpatizzanti libertari trova Vittorio Malaroda, Ugo Miniussi, Fortunato Capra ed altri.
Assenti i libertari della precedente generazione, la maggior parte dei quali del resto non lavorava in cantiere.
Gli incontri sono sporadici ed informali ed il gruppo non è molto strutturato né sindacalmente attivo.
Alla fine degli anni ’50 in cantiere inizieranno una serie di partecipate assemblee in cui si discute di religione. Tra i relatori (tutti lavoratori del cantiere) un prete, un pastore evangelico, un comunista e per i libertari Mario Pacor: comunista convertitosi all’anarchismo dopo l’accordo Ribbentropp-Molotov, volontario nella guerra civile spagnola e fuoriuscito in Francia, al suo rientro in Italia, come altri sloveni della minoranza, viene arruolato coattivamente nei battaglioni speciali dell’esercito italiano e mandato in Sardegna.
Le assemblee in cantiere cessano quando ormai il confronto diventa impossibile causa l’irrigidirsi delle rispettive posizioni e il conseguente scontro che arriva talvolta quasi alle vie di fatto. Di quell’epoca Candotti conserva ancora un vecchio opuscolo di N. Simon probabilmente della collana Il pensiero anticlericale edito da La rivolta di Roma e intitolato Preti e superstizioni risalente al secondo dopoguerra e un altro opuscolo di tema analogo presumibilmente della stessa collana del 1955.
Il gruppo libertario sopravvive fino alla fine del 1969. Dopo la strage di piazza Fontana, ci saranno circa una decina di perquisizioni in provincia di Gorizia ed esclusi un paio di militanti de Il Manifesto di Gorizia, e altrettanti vicini a gruppi marxisti-leninisti, saranno proprio i militanti del gruppo anarchico monfalconese a subire la repressione.Fortunato Capra a Polazzo, Balduino Zambon, Mario Visintin e Mario Candotti a Ronchi e Vittorio Malaroda a Monfalcone avranno la visita invadente delle forze dell’ordine: la casa di Candotti viene circondata dai carabinieri e anche da Capra rovisteranno dal tetto alla cantina terrorizzando la moglie, sequestrando stampa anarchica, qualche volantino e nulla più.
L’azione repressiva del resto contiene anche dei particolari decisamente comici. Quando ad esempio i carabinieri vanno a perquisire la casa di Mario Visintin, perquisiscono un omonimo totalmente estraneo a qualsiasi tipo di attività politica; durante la perquisizione a casa di Candotti quando i carabinieri trovano una scatola contenente la corrispondenza internazionale in esperanto vanno in fibrillazione.
La repressione riesce comunque nell’intento di scardinare anche questa residuale presenza libertaria: Capra lascia definitivamente il gruppo su pressioni della moglie ma forse anche perché nel frattempo ottiene una promozione in cantiere, i giornali non arrivano più e anche Mario Candotti inizia a mollare.
Il precipitare negli anni di Piombo, in cui troppo spesso si è associato il terrorismo all’attività dei gruppi libertari, farà sì che Mario si riavvicini al partito comunista che nel frattempo si è avviato ad una ambigua, lenta e forse mai finita operazione di destalinizzazione.
Tuttora Mario – a dispetto dei suoi 86 anni – è una persona gioviale, attiva e dinamica e non ha perso tratti del suo anarchismo che riconosce tuttora come “ideologia perfetta” anche se poi aggiunge disincantato che “nel mondo attuale è un’utopia”. In ogni caso il suo salace anticlericalismo, l’impegno antifascista, l’internazionalismo, la corrispondenza esperantista e la difesa del territorio – testimoniata anche da un adesivo NO TAV bilingue italiano-sloveno sulla sua utilitaria – ne sono segni evidenti e indelebili.
Luca
“La genta dovria legger, capir. Almeno gaver il barlume: no dir che l’anarchismo xe caos. Queste xe stupidaggini che disi la gente. Anarchia xe caos? No xe vero!” Mario Candotti
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Oltre ai diversi incontri che ho avuto con Mario e altri militanti e partigiani che lo conoscono ho consultato:
M. COSLOVICH, Racconti dal Lager, Mursia, 1997 (in particolare il capitolo 2)
Vedi anche: